La specificità del metodo di ricerca è uno degli elementi che conferiscono identità, riconoscibilità e
autonomia alle diverse discipline scientifiche. La Storia delle relazioni internazionali e gli Studi d’area
non fanno eccezione: ne costituisce tratto qualificante la natura interdisciplinare del metodo applicato
allo studio diacronico delle relazioni internazionali, delle società e delle istituzioni presenti nelle diverse
aree del globo e dei vari processi con i quali queste hanno partecipato alla storia mondiale. Il significato
e la complessità di quegli oggetti di studio sono ricostruiti attraverso domande di ricerca, fonti,
periodizzazioni, concetti, lessico - e altro ancora - propri della dimensione nazionale, internazionale e
transnazionale dei fenomeni storici. Una metodologia, però, non è un patrimonio di conoscenze da
contemplare staticamente e impiegare in modo meccanico. Al contrario, richiede una riflessione
continua, perché costante deve essere il suo aggiornamento.
La manutenzione può essere suggerita dai risultati e dalle nuove frontiere della ricerca. Si pensi, nel
nostro caso, alle implicazioni dei nuovi studi sulla Guerra fredda, che valorizzano il ruolo svolto dagli
attori individuali e collettivi per superare i confini dei due blocchi, preparando la strada per la
convergenza, la conversione e le interazioni che hanno contribuito a creare il mondo post-bipolare;
oppure alle trasformazioni della Storia internazionale generate dall’inclusione nei suoi campi analitici del
“Sud globale”, o ancora degli scambi e dei networks attivati dai soggetti transnazionali non statuali e
delle varie espressioni dell’internazionalismo, come pure all’ascesa dei “Black Studies”, dei “Gender
Studies” e degli “Indigenous Studies” che hanno profondamento innovato la storia politica e
intellettuale, sociale ed economica delle diverse aree del mondo. Per queste e altre vie, la Storia delle
relazioni internazionali e gli Studi d’area partecipano alla definizione di nozioni come il “Global turn” e
dialogano con tendenze quali la “World History”, la “Global History”, la “Transnational History” e la
“Connected History”. Questa interazione implica l’incorporazione di vari aspetti connessi all’attività
umana (l’economia, la cultura, la demografia, l’ambiente, ecc.). Si tratta di un processo affascinante e
però non privo di seri rischi. Può infatti condurre all’elaborazione di categorie “metastoriche”, utili –
per citare John Lewis Gaddis – a rendere più efficace il lavoro degli storici internazionalisti; al
contempo, può compromettere lo statuto della loro disciplina. Se gli oggetti della Storia internazionale
sono infiniti, qual è il suo oggetto? Se il suo lessico è multiforme, qual è il sistema linguistico che la
distingue dalle altre discipline? Si conferma, insomma, la necessità di un metodo robusto e rigoroso.
La riflessione sul metodo può altresì essere suscitata da fattori esogeni alla ricerca in senso stretto. Ci
limitiamo a ricordare l’impatto che la digitalizzazione delle fonti e la diffusione dei Big data hanno – o
avranno – su tutti gli ambiti di ricerca del nostro SSD, da quelli di lunga tradizione, come la Storia
diplomatica e la Storia politica e sociale, fino ai filoni di (relativa) recente affermazione, come la storia
della diplomazia pubblica e culturale, le ricerche sul ruolo del genere, della cultura, dell’etnia negli Studi
d’area e quelli sui processi di integrazione regionale europei e sulle dinamiche trans-nazionali e trans-
regionali in corso nel Sud globale.
A questi temi, occorre aggiungere il contesto complicato nel quale operano gli storici delle relazioni
internazionali e di area. Non serve dilungarsi sulla marginalità a cui, nella nostra società, si cerca di
ridurre la Storia, negandole scientificità e utilità. È una deriva cui assistiamo pure in ambito accademico,
ma con sfide specifiche poste al nostro Settore. Ne sono prova i disegni di assorbimento da parte di
altri SSD, da taluni debolmente giustificati con l’esigenza di riunificare tutti gli studiosi che usano
l’“approccio storico”, da altri con la supposta condivisione dell’oggetto della ricerca - le relazioni
internazionali, destoricizzate e ricomprese in un eterno presente che renderebbe superfluo il sapere e il
metodo di chi esplora il passato.
In questo quadro, la Società italiana di storia internazionale (SISI) promuove il Laboratorio di metodologia.
La sua configurazione prevede due workshop preparatori e quattro panel conclusivi che si svolgeranno
durante il Convegno annuale della SISI, previsto a Roma nel prossimo mese di giugno.
Il progetto trae linfa dalla natura composita ma affatto disomogenea del nostro SSD. La prima
caratteristica sollecita ulteriormente a meditare sulla “cassetta degli attrezzi” di cui disponiamo; la
seconda indirizza la finalità della riflessione. L’intento principale del Laboratorio, infatti, è comprendere
quali possano essere i percorsi comuni alle varie componenti del Settore per valutare lo “stato dell’arte”
della metodologia e per ragionare sull’adeguamento del metodo alle vecchie e nuove sfide della ricerca.
In questo sforzo sono probabilmente destinate ad emergere anche la varietà e le differenze, presenti
intra e intersettorialmente, dei fondamenti sottostanti al nostro lavoro. Queste, va da sé, non devono né
possono essere nascoste o sottovalutate. Lo spirito con cui dovranno essere affrontate è tuttavia
costruttivo, nella consapevolezza che esse non sono state un ostacolo al dialogo scientifico – come
l’ormai lunga esperienza di lavoro comune dimostra – ma al contrario hanno rappresentato un
arricchimento e una articolazione determinanti per forgiare l’identità, la riconoscibilità e l’autonomia
scientifico-disciplinare della Storia delle relazioni internazionale e degli Studi d’area.